In nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, Amen. Quando per ordine del piissimo ed eccellentissimo sovrano Carlomagno imperatore e del re Pippino, suo figlio, siamo stati invitati noi, loro servitori, cioè Izzone prete e Cadolao e Aione conti per le questioni riguardanti le sante chiese di Dio, i nostri sovrani e le violenze contro il popolo, i poveri, gli orfani e le vedove, siamo prima di tutto venuti nel distretto Capodistriano, nel luogo detto Risano, là, dopo aver congregato il venerabile patriarca Fortunato, i vescovi Teodoro, Leone, Staurazio, Stefano, Lorenzo, gli altri seniori ed il popolo della provincia degli Istriani, abbiamo allora eletto dalle singole città e castelli gli uomini capitani in numero di 172 e li abbiamo fatti giurare sui quattro evangeli di Dio e sulle reliquie dei santi di dirci la verità su tutto ciò che sanno delle cose che li interrogheremo, prima di tutto delle cose riguardanti le sante chiese di Dio, poi dei diritti dei nostri sovrani come pure delle violenze e consuetudini del popolo di questa terra, degli orfani e delle vedove. Essi devono dirci la verità senza timore di chicchessia. Ed essi ci portarono i documenti riguardanti le singole città e castelli, fatti dai magistri militi nel tempo del regno dell’imperatore Costantino, asserendo che da parte delle chiese non avevano né l’aiuto né i loro diritti consuetudinari.
Il patriarca Fortunato rispose dicendo: “Non so se volete dire qualcosa contro di me. Però voi tutti sapete che i diritti consuetudinari, che nella vostra regione dava la mia santa chiesa dai tempi antichi fino adesso, voi mi avete liberato da essi perché io dovunque potevo, vi aiutavo e anche adesso lo voglio fare. Inoltre voi sapete che [per voi ho pagato] molti tributi e che per voi ho inviato messi al servizio dell’imperatore. Ma adesso sia come piace a voi”.
Tutto il popolo unanime replicò che sia in futuro come lo era nel passato e per molti anni per il nostro bene, perché avevamo da parte [vostra] molti benefici e speriamo di averne [in futuro] - eccetto quando arrivano i messi dei nostri sovrani, che la vostra famiglia si attenga all’antica consuetudine.
Poi il patriarca Fortunato disse: “Vi prego, figlioli miei, dite la verità, quali diritti consuetudinari aveva la mia santa chiesa metropolitana nel distretto istriano tra di voi?”
Primo di tutti, il seniero di Pola disse: “Quando il patriarca veniva nella nostra città - se era necessario a causa dei legati dei nostri sovrani o per qualche placito con il magister militum greco, il vescovo della nostra città usciva con i sacerdoti e con il clero, vestiti in pianete, con la croce, candelabri [con i ceri] ed incenso, salmodiando come al sommo pontefice, e i giudici col popolo venivano con vessilli e lo accoglievano con grande onore. Quando il pontefice entrava nel palazzo della nostra santa chiesa, il vescovo prendeva subito le chiavi del suo palazzo mettendole ai piedi del patriarca. Il patriarca da parte sua le dava al suo maggiordomo e giudicava e disponeva [del palazzo] per tre giorni; al quarto giorno passava nel proprio alloggio”.
Quindi abbiamo interrogato i giudici delle altre città e castelli se questo fosse la verità. Tutti dissero che questo era la verità e che così vogliono sia da qui innanzi. Altro contro il patriarca non possiamo dire. Le vostre greggi dominicali possono pascolare dove le nostre senza alcuna tassa; vogliamo che permanga così anche in futuro. Ma contro i vescovi abbiamo molto da dire:
I. Capitolo: Per i legati dell’impero e per qualunque [altro] contributo o colletta, metà dava sempre la chiesa, ed il popolo metà.
II. Capitolo: Quando venivano i legati dell’impero, avevano alloggio nel vescovato e finché non dovevano ritornare al loro sovrano si trattenevano là.
III. Capitolo: Qualunque carta sulle enfiteusi o livello o permute non dolose [di terre] non furono mai dal tempo antico cambiate come lo sono oggi.
IV. Capitolo: Nessuno usava violenza a causa del diritto sul fieno o sulle ghiande su terreni incolti, ma [si procedeva] secondo la consuetudine dei nostri genitori.
V. Capitolo: Dalle vigne mai si prendeva il terzo, come lo fanno oggidì, ma solo il quarto.
VI. Capitolo: I famigli della chiesa non commettevano degli eccessi contro un uomo libero o lo battevano con bastoni e non osavano neanche sedersi in sua presenza. Ora ci battono con i bastoni e ci perseguitano con le spade. Noi per timore del sovrano non osiamo resistere affinché non ci arrivi di peggio.
VII. Capitolo: Chi teneva in affitto le terre delle chiese fino alla terza locazione, non veniva mai cacciato via.
VIII. Capitolo: Nei mari pubblici, dove tutto il popolo pescava in comune, non osiamo addesso pescare, perché ci battono con i bastoni e tagliano le nostre reti.
IX. Capitolo: Quanto a quello che ci domandate sui diritti dei nostri sovrani esercitati dai Greci fino a quel giorno quando siamo venuti in potere dei nostri sovrani, diremo la verità come sappiamo: dalla città Pola, monete d’oro 66; da Rovigno monete d’oro 40; da Parenzo monete d’oro 66; unità militare triestina [numerus Tergestinus] monete d’oro 60; da Albona monete d’oro 30; da Pedena monete d’oro 20; da Montona monete d’oro 30; da Pinguente monete d’oro 20; cancellario di Cittanova monete d’oro 12; in tutto fa monete d’oro 344.
Queste monete d’oro si consegnavano ai tempi dei Greci al fisco. Dopo che Giovanni assunse il ducato, adoperò queste monete d’oro per sé e non disse che si trattava dei diritti del fisco. Poi, egli possiede la villa Orcione con molti oliveti; e poi parte della villa Petriolo con vigne, terre ed oliveti; poi tutta la parte di Giovanni Cancianico con terre, vigne, oliveti e casa con frantoi; poi il possedimento grande di Arbe con terre, vigne, oliveti e casa; poi il possedimento di Stefano magister militum; poi la casa Serontiaca con tutti i suoi possedimenti; poi il possedimento di Maurizio console e Basilio magister militum, come pure di Teodoro console; poi il possedimento che tiene a Priatello con terre, vigne ed oliveti e molti altri luoghi. In Cittanova egli gode il patrimonio pubblico, dove abita [ci sono] dentro e fuori la città più di duecento coloni, che in buona stagione rende più di cento moggi di olio, più di duecento anfore di vino e grano e castagne a sufficienza. Ha i diritti sulla pesca da dove gli proviene annualmente più di cinquanta monete d’oro ed inoltre per il suo desco a sazietà. Tutto questo tiene il duca eccettuato quelle 344 monete d’oro soprascritte, che devono andare al palazzo imperiale. Quanto alle violenze fatte dal duca Giovanni contro di noi delle quali ci interrogate, diremo la verità e quanto sappiamo.
I. Capitolo: Ci tolse i nostri boschi, da dove i nostri genitori raccoglievano i diritti sul fieno e sulla ghianda; ci tolse pure le fattorie isolate da dove i nostri genitori, come dicemmo sopra, similmente raccoglievano. Ora Giovanni ce lo nega; inoltre pose gli Slavi sulle nostre terre; loro arano le nostre terre e i nostri terreni incolti, falciano i nostri prati, pascolano [i loro animali] sui nostri pascoli e per queste nostre terre pagano l’affitto a Giovanni; inoltre non ci rimangono né bovini né cavalli, se diciamo qualcosa dicono di ucciderci; tolse i nostri confini che i nostri genitori posero secondo l’antica consuetudine.
II. Capitolo: Da tempo antico, quando eravamo sotto il potere dell’impero greco, avevano i nostri genitori il diritto al tribunato, a [diventare] domestici e vicari come pure luogotenenti e in base a queste cariche partecipavano al consiglio [provinciale] e sedevano durante la sessione ognuno secondo il proprio rango e chi voleva onori maggiori del tribuno si recava dall’imperatore che lo nominava console, e chi era console imperiale, in tutte le occasioni occupava il posto subito dopo il magister militum.
Adesso il duca nostro Giovanni ha istituito sopra di noi dei centarchi, dividendo il popolo tra i suoi figli e figlie e genero e questa povera gente gli edifica i palazzi. Ci ha tolto il tribunato, non ci permette di avere uomini liberi e ci lascia andare contro il nemico coi soli nostri servi; ci tolse i nostri liberti; non abbiamo più potere nemmeno sugli stranieri che collochiamo nelle nostre case e terre adiacenti. Ai tempi dei Greci ogni tribuno aveva cinque [coloni] esenti e più, ed anche questi ci ha tolti. Mai abbiamo dato foraggio, nelle ville mai lavorato, mai coltivato le vigne [altrui], mai fatto le calcine, mai fabbricato le case, mai abbiamo lavorato nei mattonai, mai nutrito i cani, mai fatto le collette come adesso facciamo; per ogni manzo dobbiamo dare un moggio, collette di pecore mai abbiamo fatto come lo facciamo oggi: ogni anno dobbiamo dare pecore ed agnelli. Con le navi dobbiamo andare a Venezia, Ravenna, in Dalmazia e per i fiumi, che mai abbiamo fatto, e dobbiamo farlo non solo per Giovanni, ma anche per i suoi figli, figlie e genero. Quando gli tocca andare per servizio dell’imperatore ovvero inviare i suoi uomini, prende i nostri cavalli e con violenza conduce con sé i nostri figli e fa loro trascinare carichi per trenta miglia e più [e poi] prende a loro tutto quello che hanno e li fa ritornare a casa a piedi e i nostri cavalli manda in Francia o li regala alla propria gente.
Dice al popolo: “Raccogliamo i doni all’imperatore, come abbiamo fatto al tempo dei Greci e venga un deputato del popolo insieme a me e presenti i doni all’imperatore”.
Noi raccogliamo con grande gioia e quando si trattò di andare, egli disse: “Non occorre che voi veniate, io sarò il vostro intercessore presso l’imperatore”; con i nostri doni va poi dall’imperatore e procura per sé e per i suoi figli onore e noi rimaniamo in grande oppressione e dolore.
Al tempo dei Greci raccoglievamo una volta all’anno, se era necessario, per i legati imperiali di ogni cento pecore da chi ne aveva, una; a chi oggi non ha che tre, si prende una e non possiamo nemmeno lamentarci: ogni anno i suoi amministratori le prendono. Tutto questo ha nelle sue mani il duca Giovanni, cosa che mai aveva il magister militum greco, poiché sempre un tribuno aveva cura dei messi imperiali e dei legati all’andata e al ritorno. E facciamo queste collette ogni anno e le facciamo quotidianamente volenti o nolenti. Per tre anni, quelle decime che dovevamo dare alla santa chiesa abbiamo dato agli Slavi pagani, quando li insediò sopra le terre della chiesa e del popolo in suo peccato e nostra perdizione. Tutte queste angarie e sovrangarie suddette facciamo per violenza il che i nostri genitori mai facevano; perciò siamo caduti in povertà e ci deridono i nostri parenti e vicini nostri a Venezia e Dalmazia come pure i Greci, sotto il potere dei quali eravamo prima. Se ci soccorre l’imperatore Carlo possiamo salvarci, “se no, è meglio per noi morire che vivere”.
Allora il duca Giovanni disse: “Quei boschi e pascoli dei quali parlate, io credevo che da parte dell’imperatore dovevano appartenere al fisco; adesso, se voi lo dite sotto giuramento, io [non] mi opporrò; le collette di pecore non si faranno di più se non di quanto era in uso anticamente; similmente anche dei doni dell’imperatore; quanto ai lavori o alla navigazione ed altre angherie, se questo vi pare gravoso, che non siano più. Vi restituisco i vostri liberti secondo la legge dei vostri genitori; vi concedo di avere uomini liberi in vostro potere, così come fanno tutti coloro che sono sotto i nostri sovrani. Gli stranieri, che risiedono sulle vostre terre, siano in vostro potere. Quanto agli Slavi di cui parlate, andiamo sulle terre ove risiedono e vediamo: se possono risiedere senza danno per voi, che vi risiedano, là dove a voi fanno qualche danno, nei campi o boschi o terreni incolti o dove che sia, noi li butteremo fuori. Se piace a voi che li mandiamo in tali luoghi dove possono stare senza danno per voi, che siano utili al fisco come anche l’altra gente”.
Abbiamo quindi provveduto noi legati dell’imperatore che il duca Giovanni desse garanzia che riparerà tutto il suddetto [concernente] le sovrangarie il diritto sulle ghiande e sul fieno, i lavori e le collette, gli Slavi, le angarie, e la navigazione. E le garanzie furono ricevute da Damiano, Onorato e Gregorio. Anche lo stesso popolo ritrasse le incriminazioni a condizione che simili cose non avvengano più. E facessero ancora queste oppressioni egli, i suoi eredi o amministratori, che paghino quanto abbiamo statuito.
Delle altre questioni fu poi convenuto tra Fortunato, venerabile patriarca, i soprascritti vescovi, il duca Giovanni, altri seniori ed il popolo, che si deve adempiere tutto quello che ricorderanno con giuramento e diranno secondo il loro giuramento ed [inoltre quello che è scritto] nei documenti, e chi non vuol adempiere deve pagare coatto nel palazzo imperiale 9 libbre in monete d’oro. Questa sentenza e compromesso sono stati fatti in presenza dei legati dell’imperatore Izone prete, Cadolao ed Aione e [lo] sottoscrissero di propria mano alla nostra presenza:
Fortunato, per indulgenza di Dio patriarca, in questa carta di promessa da me fatta, sottoscrissi con mia mano.
+ Staurazio vescovo in questa carta di promessa sottoscrissi con mia mano.
+ Teodoro vescovo sottoscrissi.
+ Stefano vescovo sottoscrissi.
+ Leo vescovo sottoscrissi.
+ Lorenzo vescovo sottoscrissi.
Io, Pietro, peccatore, diacono della santa chiesa metropolitana aquileiese ho scritto questa carta di promessa per ordine del mio signore Fortunato, santissimo patriarca, del duca Giovanni, dei sopraddetti vescovi, seniori, e del popolo della provincia istriana e dopo la corroborazione dei testimoni ho roborato la carta.